Polizzi Generosa: la Chiesa Madre e le sue opere

© Testo di Salvatore ANSELMO - Foto di Vincenzo ANSELMO

Ancora oggi ci sfugge l’anno di fondazione della Chiesa Madre, titolata a Santa Maria Assunta, e comunemente detta di Santa Maria Maggiore. È orientata ad est ed è collocata nella parte alta della città ai piedi del colle dominato dal Castello. Gli eruditi polizzani ritengono che la costruzione debba risalire ad epoca normanna, con ampliamenti realizzati grazie alla generosità della contessa Adelasia, nipote del Conte Ruggero, signora di Polizzi e sposa di Rinaldo dell’Aquila. Venne probabilmente ingrandita sotto il dominio dei Ventimiglia, nella seconda metà del XIV secolo, assumendo così quell’aspetto gotico che si è mantenuto sino al 1764, anno in cui venne completamente diroccata. Doveva presentarsi, come confermano i manoscritti, a tre navate suddivise da pilastroni con archi a sesto acuto come la chiesa di San Francesco di Palermo o la Matrice Vecchia di Castelbuono. Recenti restauri ci hanno per fortuna restituito i “resti della parete meridionale con i suoi conci squadrati ed il bellissimo portale detto di san Cristoforo sulla ‘pennata’, raffinatissimo nella scultura dei suoi capitelli e nelle svelte cordonature” (V. Abbate). Fonte battesimale di Giorgio da Milano Fu nel Quattrocento, soprattutto dopo il passaggio della Città al demanio regio, che la Matrice iniziò ad arricchirsi di tante opere, commissionate dai giurati, dalle confraternite e dai nobili del luogo che lì avevano le loro cappelle, come la gran croce dipinta, gli organi, il coro e, non per concludere, la “cona grande” ovvero il polittico realizzato da Antonello Crescenzio per l’altare maggiore, di cui si conserva la predella raffiguranti gli Apostoli in sagrestia. Queste opere, come tante altre, sono andate perdute in seguito ai rifacimenti che si susseguirono nel corso degli anni in particolare nel 1620 e nel 1764 “quando fu diroccato tutto l’intero della Chiesa Madre” (G. Di Giovanni). La realizzazione del nuovo progetto fu affidato all’architetto gangitano Gandolfo Bongiorno. Fu cambiato il prospetto della chiesa e modificato quindi l’aspetto originario e successivamente fu abbattuto anche l’antico campanile.
Partendo dalla navata laterale di destra è possibile ammirare il fonte battesimale, opera riferita da Maria Accascina a Giorgio da Milano, che presenta sulla conca esterna quattro scene bibliche: l’Annunciazione, la Natività, l’Adorazione dei Magi ed il Battesimo di Gesù.
Particolare della Natività con il Trionfo dell'Eucaristia, opera di Giuseppe Salerno A pochi metri, esattamente sulla destra, si trova, oltre la piccola tela raffigurante il Martirio dei Diecimila del quarto decennio del XVI secolo e attribuita allo spagnolo Joannes de Matta, il dipinto rappresentante la Natività con il Trionfo dell’Eucaristia (*) realizzato nel 1616-17 da Giuseppe Salerno per la chiesa di San Giuseppe su commissione dei rettori della confraternita del Sacramento e per volere di Giuseppe Caruso, barone di Xireni. Questo può senz’altro spiegare la presenza di due soggetti, il Trionfo, legato alla compagnia e la Natività con San Giuseppe in omaggio al Santo cui era dedicato l’edificio chiesastico oltre che al nome del Caruso. In realtà la composizione si sviluppa su tre piani all’ultimo dei quali si trova la Trinità in gloria. Gli angeli a schiera con ali spiegate nel secondo livello, trovano il punto di fuga nell’ostensorio raggiato con il Santissimo similmente ai tabernacoli marmorei tanto diffusi in questo periodo.



Nella stessa navata si apre la Cappella del patrono, San Gandolfo da Binasco, che, giunto a Polizzi nel 1260 per predicare la Quaresima, sarebbe morto nell’aprile successivo nella chiesa di San Nicolò de Franchis. All’interno è conservata la pregevole urna reliquiaria d’argento del Beato realizzata da vari artisti tra cui Andrea di Leo, Giuseppe Li Muli, Giuseppe e Nibilio Gagini a partire dal 1549.
Particolare dell'ancona marmorea raffigurante la Vergine con i Santi Francesco d’Assisi e Antonio da Padova Sul lato destro si trova l’ancona marmorea raffigurante la Vergine con i Santi Francesco d’Assisi e Antonio da Padova proveniente dalla chiesa di San Francesco e commissionata da Marino Notarbartolo a Giuliano Mancino e Bartolomeo Berrettaro. Per una serie di vicissitudini quest’ultimo si avvalse, per la realizzazione delle tre figure, di Francesco del Mastro. Essa venne completata, come riferisce la scritta, nel 1524. L’opera, secondo l’Accascina, vide con ogni probabilità l’intervento del più noto scultore Antonello Gagini nella realizzazione del Poverello d’Assisi per la strabiliante resa anatomica. Le formelle dell’arco, riferite al Berettaro, raffigurano gli episodi della vite dei Santi Francesco a sinistra e Antonio a destra.
Nello stesso luogo è possibile ammirare pure l’arca marmorea di San Gandolfo commissionata dai giurati della città e dal procuratore della Cappella nel 1482 a Domenico Gagini. L’opera, purtroppo smontata e dispersa in seguito ai radicali rifacimenti del 1764, venne ricostruita parzialmente soltanto negli anni Settanta del Novecento con la perdita di alcune parti necessarie per riconfigurare l’aspetto originario. Sulla base si trova la predellina con i Dodici Apostoli e sopra il coperchio è posto il Beato con le mani giunte e con la testa poggiata su un guanciale riccamente decorato. Quasi ad arricchimento figurativo del drappo del cataletto si trovano tre scene salienti della vita del Santo: la Predica in Matrice per la Quaresima, il Trasporto dell’Arca e la Venerazione dei fedeli. In ciascuna scena, scrive Abbate, “l’artista ha voluto rendere nei particolari un momento reale di vita, colto nell’attimo, come in una foto”.
Particolare del trittico fiammingo Nella cappella del beato Gandolfo è stato di recente collocato il trittico fiammingo (*) proveniente dalla chiesa di Santa Maria di Gesù extra moenia per poi passare in quell’edificio chiesastico dello stesso titolo ed ordine religioso dentro la cinta muraria. L’opera, con cornice originaria, è senza dubbio il capolavoro di un anonimo artista fiammingo, attivo intorno al terzo-quarto decennio del XV secolo, che la critica, da Friedländer in poi, ha concordemente definito come “Maestro dei fogliami ricamati” e che gli studi belgi più recenti (F. Gombert-D. Martens) collocano nell’atelier di quest’ultimo, laddove operarono oltre che specialisti di figure anche addetti alla resa dei paesaggi e delle scene botaniche. Si tratta di un ignoto pittore attivo a Bruxelles a cui non dovettero mancare i contatti con Bruges dal momento che la sua opera risente dei forti richiami della pittura di Rogier van der Weyden, cui pure di recente il trittico è stato attribuito, sebbene con la collaborazione del figlio Pierre (C. Valenziano). La “tabula antiquissima", così come la definisce Rocco Pirri, raffigura la Mater Sapientiae con il Bambino sulle ginocchia che sgualcisce dolcemente il libro della sapienza, seduta sul ricco trono intagliato e dorato sotto una sorta di baldacchino. Ai lati si trovano quattro angeli vestiti con ricchi paramenti: due, esattamente quelli a destra, suonano il flauto e il liuto, e gli altri cantano. L’angelo in basso a sinistra, secondo Carapezza, tiene un cartiglio con le note del brano dell’Ave Regina, un mottetto mariano opera del musicista inglese Walter Frye. Nella tavole laterali le “martyres” (testimoni della Sapienza sino al sangue) con i loro più noti attributi iconografi, Caterina d’Alessandria e Barbara, sono immersi in un paradisiaco paesaggio dipinto, o meglio descritto, con i minimi particolari, ovvero “à la maniére flamande”. Leggendario risulta l’arrivo del Trittico a Polizzi. Stando alle fonti Luca Giordano, di cui ricorre l’iscrizione posticcia in basso insieme agli stemmi, sarebbe quel capitano di mare che “scampato alla tempesta di mare e volendo sciogliere il voto fatto nel momento del pericolo, consegna l’importantissima opera che teneva con sé al primo fraticello che incontra” (V. Abbate). Questi, guarda caso polizzano, lo affida ad un bordonaro che lo porta a Polizzi dopo una serie di vicissitudini come quella della spedizione dell’opera da parte del Conte di Collesano, Pietro Cardona, che aveva notato il trittico, alla moglie, Susanna Gonzaga, a Petralia Sottana. Abbate, qualche anno addietro, poiché l’opera era posta nella cappella di Gian Bartolo La Farina, potente del luogo, ha “supposto un nesso incontrovertibile tra il La Farina e la presenza del dipinto a Polizzi, seppur non una specifica committenza dato che venne realizzato nell’ultimo quarto del XV secolo”, ma d’altronde a La Farina, che ospita Carlo V nel 1535, “non dovettero mancare occasioni per procurarsi un’opera di siffatta importanza”.
Particolare del Trittico della Visitazione: Compianto su Cristo Morto Sul presbiterio è posto il grande Trittico della Visitazione, del 1519, attribuito da Vincenzo Abbate a Joannes de Matta e da Teresa Pugliatti ad un anonimo maestro battezzato come maestro del Polittico di Castelbuono in riferimento alla nota opera della Matrice Vecchia. L’opera, proveniente dalla chiesa di Santa Maria di Gesù Lo Piano e racchiusa da una elegante incorniciatura che richiama le cone dei Gagini, raffigura al centro la Visitazione della Vergine a S. Elisabetta; ai lati i Santi Anna e Zaccaria; nella predella gli Evangelisti, il compianto su Cristo Morto, S. Paolo ed un tempo i Santi Pietro, Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea; nell’architrave i profeti David, Geremia, Daniele, Mosé, i quattro Dottori della Chiesa e la Natività; nella lunetta l’Assunzione della Vergine. Chiaro è quindi il riferimento al ciclo cristologico e mariano in particolare. L’opera presenta elementi di carattere descrittivo, di matrice fiamminga dunque, che si uniscono a citazioni desunte dall’area iberico-mediterranea. Sulla stessa parete è posta una delle prime copie del famoso Spasimo di Raffaello e aiuti che si trovava nell’omonima chiesa palermitana e ora al Museo del Prado. L’opera, attribuita al Matta, sarebbe, secondo la Spadaro, “una traduzione di un testo da una lingua ad un’altra” per le differenze più che palesi che si notato con l’opera spagnola. I personaggi del Matta risultano infatti privi di qualunque sentimento di dolore eccetto, forse, Gesù e la Madre. Madonna con il bambino, detta dello Scuro, riferita a Domenico Gagini Di fronte il già citato trittico campeggia Il Compianto su Cristo morto con i Santi Sebastiano e Caterina d’Alessandria del terzo decennio del ‘500 concordemente attribuito a Johannes de Matta. La tela, forse commissionata dai La Farina e probabilmente proveniente dalla chiesa di Santa Maria di Gesù dei PP. Minori Osservanti, si caratterizza per l’ossuta figura del Cristo morto al centro. L’opera, infine, presenta stringenti affinità con talune parti del già citato trittico della Visitazione. La figura della donna dietro la Maddalena che si copre il volto con il manto, ricorda quella dipinta nella predella centrale del trittico. Allo stesso pittore, che firma nel 1541 la tela raffigurante la Madonna del Carmelo della chiesa del Carmine di Polizzi Generosa, Abbate ha riferito gli Angeli musicanti del 1524 della sagrestia, in origine forse sportelli di un piccolo organo della chiesa di Santa Maria del Castello, la Strage degli Innocenti del quarto decennio del XVI secolo posta sempre nel presbiterio e il San Silvestro ora nella chiesa di S. Orsola di Polizzi. Sull’altare maggiore si ammira, inoltre, la Madonna con il Bambino del 1508 documentata allo scultore carrarese attivo in Sicilia, Giulio Mancino.
Sull’altare dell’attigua cappella di San Giuseppe, un tempo dei Notarbartolo e detta dello Scuro, si trova, oltre diversi monumenti funebri provenienti da altre chiese, la statua di San Giuseppe con il Bambino attribuita al gangitano Filippo Quattrocchi. Il gruppo scultoreo, proveniente dalla chiesa omonima, presenta i tratti stilistici tipici dell’artista madonita. Il viso del Padre in particolare richiama quello del documentato San Filippo Apostolo di Gangi. Da notare pure la Madonna con il Bambino, detta dello Scuro, del 1473 riferita a Domenico Gagini e collaboratori. Nella stessa cappella è posto il monumento funebre di Marino Notarbartolo del 1516, cugino del già menzionato Marino, scomposto dopo il 1764. L’opera è costituita dal sarcofago con la figura del gisant sul coperchio in abiti cinquecenteschi e il cane ai piedi, simbolo di fidelitas, e dell’arco di coronamento posto sul lato opposto con la Vergine con il Bambino e due Figure Allegoriche concordemente assegnate a Giuliano Mancini e collaboratori.



Nella cappella del Crocifisso è possibile inoltre vedere l’arca reliquiaria lignea di San Guglielmo, compatrono di Polizzi insieme a Gandolfo, riferita ad ignoto intagliatore siciliano del primo quarto del XVII secolo e il Crocifisso ligneo ricondotto a probabile scultore trapanese della fine del XVII secolo.
Lungo le navate laterali è possibile ammirare tele del XVIII e del XIX secolo (alcune delle quali dello Scaglione e del Mirabella) che raffigurano Santi a cui erano dedicati gli altari prima dei rifacimenti.
Custodia Eucaristica di Nibilio Gagini Passando dalla sagrestia si giunge nella piccola sala museale dove sono stati esposti i resti della superba custodia marmorea commissionata dai rettori della potente compagnia del Sacramento a Giorgio da Milano e realizzata in vero da Bartolomeo Berrettaro, Pier Paolo di Paolo romano e Luigi Battista e decorata da Joannes de Matta. Questa fu realizzata non come tabernacolo (similmente a quella della Matrice Vecchia di Castelbuono o di Collesano) ma come complessa macchina con scene varie e la Trasfigurazione di Cristo al centro di cui si conservano il Trasfigurato, i profeti Mosè ed Elia e i discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni. La Compagnia del Sacramento, composta essenzialmente da nobili, ebbe sede in Chiesa Madre almeno sino agli inizi del Seicento quando si trasferisce nella chiesa di San Giuseppe.
Leonardo Cirillo è stato il committente della Custodia Eucaristica d’argento commissionata al più noto Nibilio Gagini nel 1586 ed esposta al centro della sala. L’opera, indiscusso capolavoro dell’oreficeria siciliana reso noto per primo da Gioacchino Di Marzo, presenta sulla base due episodi prefigurativi dell’Eucaristia: la Caduta della Manna e il Sacrificio di Melchisedek. Sul nodo, invece, si trovano i Padri della Chiesa e i quattro Evangelisti, vale a dire coloro i quali hanno reso noto la Rivelazione del Messia. Sopra, dentro un loggiato rinascimentale arricchito da angeli con gli Arma Christi, campeggia il Cenacolo e infine, retto da un’altra struttura architettonica dove viene posto il Santissimo Corpo di Cristo, il Risorto. Nella stessa sala, tra le altre opere, citiamo il noto “calice madonita” con simboliche foglie di cardo, commissionato da Nicolò Pujades e realizzato da un ignoto argentiere palermitano nel 1503-1511 e il piccolo Crocifisso riferito al già citato Nibilio Gagini proveniente dalla Congregazione dei Bianchi e San Giuseppe La Pace.

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Luglio 2007 - ultima revisione dicembre 2018

(*) Fotografia realizzata prima del restauro.


LETTURE CONSIGLIATE:
  • ABBATE Vincenzo, Polizzi. I grandi momenti dell’arte, Associazione Culturale Naftolia, Polizzi Generosa, 1997.
  • ABBATE Vincenzo, Inventario polizzano, Edizioni Grifo, Palermo, 1992.
  • ANSELMO Salvatore, Polizzi. Tesori di una Città Demaniale, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta, 2006.
  • ANSELMO Salvatore, Le Madonie. Guida all'arte, Gruppo Editoriale Kalós, Palermo, 2008.
  • ANSELMO Salvatore, Pietro Bencivinni “magister civitatis Politii” e la scultura lignea nelle Madonie, Plumelia Edizioni, Palermo, 2009.
  • SALAMONE CRISTODARO Celestina, Polizzi d’altri tempi, Romano Editore, Palermo, 1987.
  • SALAMONE CRISTODARO Celestina, Polizzi del passato, Edizioni Grifo, Palermo, 1990.



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